L’idea che il futuro dell’enologia passi attraverso il tappo a vite fa ancora arricciare il naso a molti appassionati. Eppure, come accadde quando qualcuno profetizzò che l’automobile sarebbe stata solo una moda passeggera rispetto al cavallo, oggi rischiamo di ripetere lo stesso errore osservando con diffidenza una tecnologia che sta cambiando il modo di conservare il vino. La chiusura in alluminio, spesso considerata una soluzione “moderna ma povera”, presenta in realtà vantaggi tecnici difficili da ignorare e smentisce molti luoghi comuni duri a morire.
Il finto mito dell’insostituibilità del sughero
Per decenni si è sostenuto che solo il sughero permettesse al vino di respirare, garantendo quella lieve ossigenazione ritenuta indispensabile all’invecchiamento. Una convinzione ripetuta nei corsi per sommelier e alla base dell’idea che qualsiasi alternativa fosse destinata a bloccare l’evoluzione della bottiglia. Il tappo a vite, nel racconto di molti, paralizzerebbe il vino rendendolo immutabile nel tempo, una sorta di ibernazione enologica inadatta ai prodotti di fascia alta. La realtà è più sfumata e rivela come queste opinioni siano spesso frutto di tradizione più che di esperienza.
Quando il sughero diventa un pericolo: ossidazione e contaminazioni
Il ritorno alle origini è utile per capire perché siano nate le alternative. Negli anni ’60 e ’70 l’industria vinicola iniziò a cercare chiusure più affidabili perché il sughero mostrava due difetti critici. Il primo, l’ossidazione: se la bottiglia non è conservata nel modo corretto o se il tappo perde elasticità per scarsa umidità, l’aria entra e compromette in modo irreversibile aromi e sapori. Il secondo, ancor più temuto, è il famigerato sentore di tappo causato dal TCA, un composto prodotto da un fungo parassita della quercia da sughero. Anche con le tecniche moderne, la percentuale di bottiglie contaminate resta tutt’altro che trascurabile. Il risultato è un difetto che può rovinare anche vini custoditi per anni per un’occasione speciale.
Il vantaggio decisivo: zero “odore di tappo”
Chiunque abbia aperto una bottiglia pregata e l’abbia trovata irrimediabilmente compromessa dal TCA conosce la frustrazione. Il tappo a vite elimina completamente questo rischio, perché non c’è alcuna interazione con il materiale organico del sughero né possibilità di trasmettere odori sgradevoli. Le varie soluzioni di disinfezione adottate in passato, come la candeggina, hanno solo peggiorato il problema, aggiungendo profumi indesiderati. Non sorprende quindi che molti produttori abbiano iniziato a guardare all’alluminio come garanzia di sicurezza.
Come nasce il tappo a vite moderno
La svolta arriva con la Stelvin, che negli anni ’70 sviluppa una chiusura standardizzata specifica per il vino, progettata per sostituire il sughero anche nelle etichette di alto livello. Il passo decisivo non è solo la tenuta ermetica, ma l’ingegnerizzazione del cosiddetto liner, la guarnizione interna che regola la quantità di ossigeno che penetra nel tempo. Grazie a polimeri studiati ad hoc, ogni tappo può offrire un livello di microssigenazione controllato e costante, ribaltando completamente l’idea che la vite renda statico il contenuto della bottiglia.
Evoluzione prevedibile e affidabile nel tempo
Il vero punto di forza del tappo a vite è la standardizzazione: tutte le bottiglie chiuse con lo stesso liner evolvono in modo uniforme, a parità di condizioni di conservazione. Con il sughero, invece, ogni tappo è leggermente diverso dagli altri e introduce variabili imprevedibili nella respirazione del vino. Ciò significa che due bottiglie identiche, conservate nello stesso ambiente, possono maturare in maniera sensibilmente diversa, rendendo impossibile garantire una reale omogeneità. Con la chiusura a vite, la qualità dell’evoluzione dipende quasi esclusivamente dal vino stesso.
Un esempio concreto che sconfessa molti pregiudizi
Una dimostrazione pratica è arrivata durante una verticale organizzata al Museo del Vino di Monteporzio Catone, dove sono state degustate sei annate del Grechetto Poggio della Costa di Sergio Mottura, tutte chiuse con tappo a vite. Parliamo di un bianco della Tuscia, prodotto da un’uva che non gode della fama di essere particolarmente longeva. Eppure la 2016, dopo quasi dieci anni, è stata giudicata la più completa ed equilibrata. Il merito va alla qualità del vino, certo, ma anche a una chiusura che ha permesso a tutte le bottiglie di maturare senza deviazioni imprevedibili.
Sfatare tabù e tradizioni: anche i bianchi possono invecchiare
L’esperienza dei Mottura contraddice molte convinzioni consolidate, come l’idea che solo vini con acidità elevata possano reggere il passare del tempo. Nel Grechetto, parte dei polifenoli presenti nella buccia passa comunque nel mosto, creando una protezione naturale contro l’ossidazione. È una dimostrazione di come il pregiudizio possa avere un peso maggiore dei dati concreti e di come il tappo a vite stia aprendo nuove possibilità per vitigni tradizionalmente considerati “non da invecchiamento”.
Una questione culturale, più che tecnica
La resistenza al cambiamento è spesso legata alla ritualità: molti difensori del sughero sostengono che togliere il tappo a mano, sentendo il classico “pop”, sia parte integrante dell’esperienza. Tuttavia, quella stessa ritualità diventa un problema quando il sughero si sgretola o rilascia frammenti nel bicchiere, circostanza tutt’altro che rara nelle bottiglie datate. L’evoluzione del settore porterà inevitabilmente a ripensare certe abitudini, così come è successo con altri oggetti ormai superati.
