Quando si prova a comprendere la forza di un’area vinicola, le mappe dei suoli o le esposizioni dei vigneti possono aiutare, ma c’è un dato che più di ogni altro rivela la salute economica di un territorio: quanto si paga l’uva. È un parametro semplice, immediato e spesso spietato. Che si parli di nebbiolo in Langa, verdicchio nelle Marche o sangiovese a Montalcino, il valore delle uve offre un’immagine precisa delle dinamiche produttive e commerciali.
Tra chi conosce bene questo mondo c’è Luca Rostagno, figura storica della viticoltura piemontese. Nato nel 1978 e diplomato enotecnico vent’anni dopo, dal 2000 è winemaker presso Matteo Correggia nel Roero e oggi coltiva in biologico a Diano d’Alba. Appassionato di meteorologia e numeri, ha condiviso sui social alcuni dati significativi relativi alle transazioni di uve nelle Langhe, stimolando un approfondimento che merita attenzione.
Come vengono calcolati i prezzi ufficiali dell’uva
I valori ufficiali dei grappoli nelle principali denominazioni della provincia di Cuneo vengono raccolti dalle tre associazioni agricole – Coldiretti, Confagricoltura e Confagricoltori – sulla base delle fatture e dei contratti registrati. Per evitare distorsioni, vengono eliminati i dati anomali, troppo alti o troppo bassi, e successivamente si ricava una media tra le fasce più alte e più basse: il risultato è il prezzo “ufficiale”, impiegato anche per la determinazione degli affitti agrari previsti dall’articolo 45.
Nel territorio langarolo questi dati riguardano solo una quota minoritaria della produzione: circa il 70% delle uve viene vinificato direttamente dagli stessi produttori, il 18-19% finisce nelle cantine cooperative e l’11-12% viene venduto a terzi. Nonostante questa proporzione, i prezzi rilevati restano un indicatore efficace dell’andamento reale del mercato. E in quasi tutte le denominazioni il calo rispetto alle ultime annate è stato evidente.
Il valore dell’uva ieri e oggi
Se si confrontano i valori attuali con quelli del 2015 lo scenario è molto più variabile. Alcune denominazioni hanno registrato crescite sorprendenti, altre hanno perso terreno in modo marcato.
Il Verduno Pelaverga, ad esempio, ha visto aumentare il prezzo delle uve del 71% in un decennio, un risultato che riflette la crescente richiesta di rossi freschi e immediati. Ancora più clamoroso è il caso dell’Alta Langa, passata da circa 80 ettari vitati ai quasi 600 attuali, con un incremento del 39% sul prezzo al chilo. La forte espansione del mercato degli spumanti ha sostenuto la denominazione, che si è trovata perfettamente in linea con i trend globali.
Nebbiolo: luci e ombre del vitigno simbolo
L’aumento vertiginoso della superficie vitata destinata all’Alta Langa ha però creato squilibri altrove. In particolare, la denominazione Langhe Nebbiolo ha perso il 28% del reddito lordo teorico per ettaro in dieci anni: la domanda cresce, ma non al ritmo della produzione. Anche il Barolo ha registrato un calo di circa il 30%, pur mantenendo valori ancora elevati grazie alle quotazioni di partenza molto alte. Il Barbaresco, invece, ha beneficiato di numeri più contenuti e mostra un lieve aumento del prezzo.
Più complesso il percorso del Roero a base nebbiolo, che fatica a imporsi con un posizionamento davvero autonomo. Le sue uve e il vino sfuso continuano infatti a essere influenzati dalle oscillazioni della denominazione Langhe Nebbiolo, dove spesso la produzione viene declassata.
Barbera, Dolcetto e Arneis: l’altra faccia del mercato
La Barbera, schiacciata negli anni da valori troppo bassi e dai problemi legati alla flavescenza, ha subito una drastica riduzione della superficie coltivata. Paradossalmente, è proprio questa contrazione ad aver riequilibrato il mercato, portando a un aumento dei prezzi del 20%.
Molto diversa la situazione delle denominazioni a base dolcetto: anche dopo importanti estirpi, i valori di vendita restano inferiori ai reali costi di produzione di un vitigno complesso da coltivare.
Il Roero Arneis, pur godendo di un buon successo commerciale, ha registrato un calo significativo del valore delle uve. L’espansione degli ettari vitati e, quest’anno, la riduzione della resa massima per ettaro hanno abbassato ulteriormente il reddito lordo teorico. Una dinamica simile ha colpito Moscato d’Asti, Barbera d’Alba e Langhe Nebbiolo, dopo le decisioni dei Consorzi di limitare le quantità destinate al mercato 2025.
Costi in aumento e redditività sotto pressione
Nonostante le oscillazioni dei prezzi delle uve siano molto diverse tra tipologie, il trend dei costi affrontati dai produttori appare decisamente uniforme: tutto è aumentato. Il gasolio agricolo è passato da 0,70 a 0,90 euro al litro, con punte oltre 1 euro; i trattori e le attrezzature hanno subito rincari importanti; i materiali di lavoro hanno visto aumenti generalizzati. Le cooperative presentano costi di gestione superiori agli 8.000 euro per ettaro. In queste condizioni, sotto i 10-11 mila euro per ettaro si lavora in perdita.
Questo scenario rischia di svuotare alcune denominazioni dalla presenza di produttori che vendono uva, lasciando attive solo le aziende che trasformano internamente. Allo stesso tempo, le denominazioni che oggi godono di buone performance dovranno monitorare con attenzione la gestione dei nuovi impianti per evitare eccessi produttivi in futuro.
Il valore dell’uva come punto di partenza
Per molti appassionati questi numeri possono sembrare lontani dal bicchiere, ma non è così. La materia prima è l’inizio di tutto: dal suo valore dipendono gli investimenti, la qualità e la sostenibilità economica delle cantine. Chiedere “quanto costano le uve qui?” resta il modo più diretto per capire cosa sta davvero succedendo in un territorio del vino. E le risposte, spesso, riservano sorprese che raccontano più di tante degustazioni.
